Episodio 6


Il lusso dal punto di vista economico: dalle origini alla deriva contemporanea



Il concetto di lusso, inteso nella sua attuale declinazione economica, è una nozione che può essere ricondotta a un’epoca relativamente recente. È significativo notare che, per lungo tempo, le diverse attività che oggi annoveriamo all’interno di questo prospero settore venivano considerate in maniera del tutto autonoma, organizzate in federazioni distinte. Si pensi, ad esempio, alla federazione del prêt-à-porter, a quella della pelletteria, o ancora, a quella dei profumi e dei cosmetici, per citarne solo alcune.

A uno sguardo superficiale, l’elaborazione e la commercializzazione di una bottiglia di champagne e la creazione di un raffinato abito di alta moda sembrano avere ben poco in comune. Lo champagne, infatti, è prodotto attraverso un processo altamente automatizzato, spesso avvalendosi di macchinari tecnologicamente avanzati, ed è reperibile sia presso enoteche specializzate sia nei grandi supermercati e ipermercati. Al contrario, un abito femminile di alta moda viene frequentemente confezionato artigianalmente in serie limitate ed è destinato esclusivamente alla vendita in eleganti boutique disseminate nelle principali città del mondo.


Furono probabilmente i francesi i primi a cogliere che, nonostante le loro differenze apparenti, una bottiglia di champagne e un abito sofisticato potessero condividere tratti comuni. Fu così che, nel 1954, venne istituito il prestigioso Comité Colbert, un’associazione concepita per promuovere il concetto di art de vivre francese nel mondo. Questo consorzio si erge a custode dei valori essenziali che definiscono il lusso nella sua accezione più autentica. I membri del Comité Colbert condividono una visione unificata dell’arte del vivere contemporanea e si adoperano per svilupparla, arricchirla e valorizzarla, considerando la diversità un’importante risorsa da preservare.

Essi convergono sull’importanza dell’espansione internazionale, sull’eccellenza del sapere artigianale, sugli standard qualitativi più elevati, sul design, sulla creatività e sull’etica professionale. Il Comité Colbert raccoglie al suo interno rappresentanti di settori commerciali eterogenei, che spaziano dall’industria automobilistica ai cristalli, dalla decorazione d’interni alle ceramiche e porcellane, dai profumi e cosmetici alla gastronomia, dai metalli preziosi all’alta moda, dall’ospitalità alla pelletteria, dall’editoria ai vini e liquori.


Quando il Comité Colbert fu fondato e il concetto di “business del lusso” iniziò a delinearsi, la connessione tra mestieri così distinti non era affatto immediata. Tuttavia, nel corso del tempo, tale visione si è consolidata, assumendo i contorni di una realtà strutturata e ben definita.


L’elenco di alcuni dei settori rappresentati risulta di grande interesse, in quanto non si limita a includere “attività” (ad esempio, la moda, che comprende anche il segmento delle calzature, o la gastronomia, che abbraccia sia i ristoranti sia la produzione di cioccolato e biscotti di altissima qualità), ma si estende anche agli “elementi” (come l’oro, l’argento e i bronzi, che trovano espressione non solo nella gioielleria, ma anche nell’orologeria di pregio).


Non meno affascinante è la presenza, tra i membri del Comité Colbert, di marchi illustri operanti in settori apparentemente lontani, quali le automobili di lusso, l’ospitalità, la gastronomia e la decorazione d’interni. Questo fenomeno testimonia con eloquenza come il concetto di lusso possa trascendere le categorie convenzionali, fondendo mondi all’apparenza inconciliabili per creare una sinergia straordinaria, capace di incarnare una visione del lusso tanto ampia quanto raffinata.



Introdotto il discorso relativo alla nascita del settore del lusso odierno, passeremo a parlare del fenomeno della crescita del settore del lusso. Quest’ultimo sottintende un'analisi sofisticata dei dati effettuata da Bain & Company, un'azienda rinomata per le sue proiezioni sulle vendite nel mercato del lusso. Tali proiezioni sono frutto di un processo analitico complesso, nel quale gli esperti di Bain elaborano informazioni provenienti da aziende riconosciute come parte del panorama del lusso. Queste aziende sono rappresentate da associazioni professionali che agiscono come custodi degli interessi collettivi del settore in diverse nazioni europee, tra cui l'Italia, la Francia, la Germania e il Regno Unito.


In particolare, associazioni come Altagamma in Italia e il Comité Colbert in Francia, fungono da pilastri per il mondo del lusso, rappresentando un segmento significativo delle vendite globali nel settore. Tuttavia, va notato che, l'appartenenza a queste associazioni, non garantisce automaticamente che il marchio sia sinonimo di lusso. Un esempio eloquente è la presenza di marchi come Lacoste nel Comité Colbert, nonostante la percezione generale e il modello di business adottato, non li consideri prodotti di lusso.

Le proiezioni di Bain, tuttavia, si concentrano esclusivamente sul cosiddetto "lusso personale", che abbraccia una vasta gamma di beni e articoli, tra cui moda, pelletteria, orologi, cosmetici, profumi, gioielli e calzature. Questo focus esclude settori come quello dell’automotive e dell’ospitalità.


Il mercato del lusso odierno si regge su un complesso paradosso. Da una parte, esso si configura come un emblema di distinzione sociale, incarnando una dimensione di privilegio riservata a un'élite selezionata, irriducibilmente separata dalla fruizione popolare. Dall’altra, il lusso contemporaneo si intreccia in modo inestricabile con le dinamiche dei marchi, i quali, se da un lato fungono da propulsori di tale esclusività, dall’altro non possono prescindere dall'assoggettarsi alle stringenti logiche dell’economia di scala.

Sorge dunque un interrogativo cruciale: in che modo conciliare la tensione tra la necessità di mantenere l’aura di inaccessibilità propria del lusso e l’imperativo di soddisfare le esigenze produttive e distributive che la modernità impone? Questa dicotomia rappresenta una sfida ineludibile per i brand di lusso, che si trovano a dover rimodellare il proprio posizionamento mediante l’adozione di strategie altamente sofisticate.


A tal proposito, un cambiamento significativo nel panorama del lusso è rappresentato dall'approccio (errato) delle aziende nel cercare di allargare la loro base di clienti, non limitandosi più alla clientela elitaria, ma cercando di coinvolgere anche i consumatori appartenenti alla classe media e occasionali acquirenti, i cosiddetti "escursionisti" alla ricerca di piccoli lussi nel loro stile di vita.

Inoltre, vi è un'esplicita volontà di catturare il crescente interesse dei nuovi ricchi emergenti e della classe media in espansione nei paesi in via di sviluppo, desiderosi di riconoscimento, status e piacere.


In risposta a queste dinamiche di mercato, molte marche di lusso stanno adottando strategie meno esclusive, abbandonando il tradizionale modello di business del lusso per adattarsi a una clientela più ampia e diversificata. Questo movimento riflette un'evoluzione significativa nel settore del lusso ("involuzione" risulterebbe più appropriato), che si adatta alle mutevoli tendenze e alle crescenti aspettative dei consumatori globali.


Da un lato, molte aziende hanno adottato una strategia di profitto focalizzata su accessori logotipo e linee di prodotti secondarie, fabbricate su larga scala e vendute come articoli di moda, seguendo il ciclo stagionale del settore (ad esempio, le celebri "it bag"). La moda agisce come un desiderio contagioso e non come sogno (come nel caso de lusso), garantendo così una vasta base di consumatori, soprattutto in Asia, dove l'adesione al conformismo è valorizzata dalle tradizioni confuciane. In paesi come il Giappone, indossare gli stessi articoli di lusso rinforza il senso di appartenenza al gruppo, creando un'identità condivisa attraverso l’uniformità nell'abbigliamento di marca. In effetti, nel contesto asiatico, il lusso e le sue griffe iconiche fungono sia da simboli distintivi che da catalizzatori per l'integrazione sociale.


Dall'altro lato, numerose aziende di lusso hanno abbandonato un pilastro fondamentale del loro modello di business: la resistenza alla delocalizzazione.


Dunque, nel panorama contemporaneo dell’economia del lusso, si assiste a una metamorfosi strutturale che scardina progressivamente le coordinate tradizionali su cui questo settore si era storicamente fondato. Lungi dal rimanere ancorato a quei principi immutabili che un tempo ne determinavano l’aura di esclusività e raffinatezza, il comparto ha conosciuto una dinamica trasformativa che, in ossequio alle logiche mercatiste, ha condotto molte delle sue più eminenti maison a ridimensionare il proprio ethos originario a favore di strategie più permeabili alle istanze di mercato e alla logica del profitto su larga scala.


L’egemonia dei grandi conglomerati, autentici colossi dell’industria del lusso, ha di fatto impresso una traiettoria evolutiva improntata all’ottimizzazione della redditività, sacrificando sull’altare della marginalità operativa quei dettami di artigianalità, eccellenza e savoir-faire che ne costituivano l’essenza distintiva. Tali conglomerati, hanno progressivamente trasformato il lusso in una sofisticata operazione finanziaria, in cui la valorizzazione degli asset e la creazione di economie di scala si sostituiscono alla dimensione estetica e a quella esperienziale del prodotto stesso. In tale scenario, le maison storiche vengono assimilate in un ecosistema che ne impone una progressiva standardizzazione, ove la differenziazione è spesso subordinata a imperativi di branding e strategie di mercato finalizzate a massimizzare il bacino d’utenza.


Questa deriva si manifesta altresì in una ridefinizione dell’accessibilità al lusso, con una crescente proliferazione di linee di prodotti che, pur mantenendo il crisma della griffe, ne diluiscono il carattere elitario per rispondere alla domanda proveniente da un pubblico più ampio e diversificato. L’introduzione di articoli dal prezzo d’ingresso relativamente più contenuto, quali accessori, fragranze e piccola pelletteria, è sintomatica di questa strategia, che cerca di conciliare l’aspirazione all’esclusività con le esigenze di consumo di un mercato sempre più massificato. Un lusso che si democratizza, dunque, ma nel farlo si snatura, assumendo i connotati di una sofisticata operazione di marketing piuttosto che di un veicolo di distinzione sociale, culturale ed estetica.


Anche sul piano produttivo si assiste a un graduale allontanamento dagli ideali fondativi del settore: il paradigma della manifattura d’élite, radicato in un savoir-faire ineguagliabile, cede il passo a logiche di delocalizzazione e ottimizzazione industriale. Se in passato l’unicità dell’oggetto di lusso derivava dalla maestria artigianale e dalla cura meticolosa riservata a ogni dettaglio, oggi il ricorso a supply chain globalizzate e a modelli di produzione su larga scala erode in maniera sempre più evidente l’intrinseca nobiltà di questi prodotti. In molti casi, la produzione viene trasferita in paesi con costi del lavoro più contenuti, compromettendo la percezione di eccellenza e autenticità che da sempre caratterizzava il settore.


Questa tensione tra l’eredità culturale del lusso e le pressioni del mercato globale, segna un vero e proprio punto di cesura con il passato, inducendo a interrogarsi sulla natura stessa del lusso nell’era contemporanea. Se un tempo il lusso si configurava come una dimensione esclusiva, intrisa di valenze simboliche e di un savoir-faire inscalfibile, oggi esso appare sempre più una costruzione commerciale, calibrata su logiche di accessibilità, desiderabilità e profittabilità. Il lusso autentico, inteso come espressione di un’élite estetica e culturale, rischia di dissolversi in una nebulosa di prodotti standardizzati e strategie di marketing aggressive, in cui l’essenza stessa del concetto di lusso viene ridefinita in funzione delle esigenze del mercato piuttosto che della sua tradizionale vocazione all’eccellenza.


Infine, nel panorama contemporaneo, si assiste alla dissociazione tra rarità tangibile e rarità percepita. In un'epoca in cui le logiche di mercato e le aspettative degli azionisti impongono traiettorie espansive, il concetto stesso di lusso – da sempre ancorato all'idea di esclusività, inaccessibilità e unicità – si è inevitabilmente riconfigurato.


Emblematica è la condizione di maison iconiche come Romanée-Conti, Ferrari, Patek Philippe o Hermès, le cui produzioni restano circoscritte da vincoli oggettivi: la limitatezza del terroir, la complessità manifatturiera, la scarsità di materiali di eccezionale qualità, l’elevatissima maestria artigianale richiesta. Questo tipo di rarità, definibile come ontologica, è in grado di conferire un’aura inalterabile di prestigio e autenticità. Tuttavia, proprio questa sua intrinseca limitazione si pone in antitesi con le esigenze dei grandi gruppi quotati in borsa, i quali vedono nella crescita esponenziale e nella scalabilità globale gli imperativi assoluti.


Per risolvere tale frizione tra identità del lusso e logica del profitto, si è progressivamente affermato un concetto di rarità virtuale– artificiosamente costruita, ma psicologicamente efficace, cara al mondo della moda. Questa si manifesta attraverso operazioni estetiche, esperienziali e narrative che evocano esclusività senza necessariamente sottendere una reale scarsità fisica. Edizioni limitate, capsule collection, collaborazioni effimere e strategie di distribuzione altamente selettive sono diventate strumenti cardinali per alimentare il desiderio e mantenere alta l’attrattiva del brand. Il tutto orchestrato in una perfetta sinfonia di storytelling, eventi e retail esperienziale, dove ogni dettaglio è calibrato per far vivere al consumatore l’illusione di un accesso privilegiato.


Questa rarità costruita ha di fatto propiziato l’espansione economica del settore, rendendo il lusso una categoria più ampia, accessibile e redditizia. Tuttavia, come rilevato nel corso degli anni da una crescente letteratura accademica e da autorevoli voci del settore, questo ha comportato una graduale erosione semantica del concetto stesso di lusso. I megabrand, pur generando l’impulso espansivo che ha fatto esplodere il comparto a livello globale, hanno in molti casi smarrito le caratteristiche ontologiche che giustificavano la loro appartenenza al pantheon del lusso autentico.

In altri termini, proprio coloro che hanno reso possibile la crescita del lusso – attraverso meccanismi di desiderabilità massificata – paradossalmente ne hanno, al contempo, compromesso l’essenza. Il lusso, dunque, vive oggi una tensione irrisolta tra autenticità e simulacro, tra artigianato e marketing, tra valore intrinseco e costruzione simbolica. In questa dialettica risiede non solo il cuore del paradosso, ma anche il destino di un’industria che, per rimanere fedele a sé stessa, deve costantemente reinventarsi senza rinnegarsi.



In relazione al discorso dei conglomerati del lusso e dei megabrand, nel panorama contemporaneo, si staglia un contrasto tra due colossi culturali ed economici del lusso: la Francia e l’Italia. La Francia, universalmente riconosciuta come la patria storica del lusso, sembra ormai aver abbandonato la vocazione alla creazione di nuove marche, preferendo invece consolidare la propria egemonia attraverso l'acquisizione strategica di marchi già affermati, provenienti da altri contesti culturali. Questa strategia, guidata dai grandi conglomerati del lusso, quali LVMH, Kering e Richemont, mira a diversificare e rafforzare i portafogli aziendali mediante l’assorbimento di eccellenze italiane, inglesi e, in prospettiva, cinesi. Tali operazioni riflettono una volontà di mantenere una posizione dominante in un mercato sempre più globalizzato, senza tuttavia alimentare il dinamismo creativo all’interno del proprio contesto nazionale.


L’Italia, al contrario, si distingue per la sua straordinaria capacità di generare nuove marche di lusso, frutto di un tessuto imprenditoriale animato da una creatività e un’estetica uniche. Tuttavia, questa vitalità creativa, non trova il supporto di strutture capitalistiche adeguate a preservarne la longevità e a garantirne la competitività globale. L'assenza di grandi gruppi industriali paragonabili ai colossi francesi, ha portato molte imprese italiane a cedere il controllo a investitori stranieri, spesso francesi, determinando una perdita di autonomia e di identità strategica. Questa dinamica ha alimentato una narrativa secondo cui l’Italia sarebbe incapace di mantenere il controllo delle proprie eccellenze, consolidando il mito di un’Italia fertile in creatività ma debole nella gestione imprenditoriale.


Tuttavia, questo falso mito merita di essere sfatato. La Francia e l’Italia incarnano due modelli distinti, ciascuno con i propri punti di forza e le proprie fragilità, ma entrambi essenziali per l’ecosistema globale del lusso. Da un lato, il modello francese si fonda sulla concentrazione del capitale e sulla costruzione di marchi-culto, che si nutrono di tradizione e storytelling per dominare i mercati internazionali. Dall’altro, il modello italiano privilegia l’innovazione, l’artigianalità e il radicamento territoriale, favorendo una proliferazione di brand che incarnano la diversità e l’eccellenza del Made in Italy.


L’apparente mancanza di grandi conglomerati in Italia non è necessariamente un limite. Al contrario, questa frammentazione permette una maggiore agilità creativa e un legame più autentico con le radici culturali del lusso italiano. Mentre i conglomerati francesi tendono a uniformare e globalizzare le loro acquisizioni, le aziende italiane mantengono spesso un'identità più distintiva, che rappresenta un valore aggiunto in un’epoca in cui l’unicità è sempre più apprezzata dai consumatori.

Si potrebbe riflettere sul motivo per cui l'industria del lusso italiana, pur essendo universalmente riconosciuta per la sua eccellenza creativa e manifatturiera, non abbia dato origine a colossi organizzativi strutturati in gruppi del lusso, analoghi a quelli che si osservano in altri contesti internazionali. Tale fenomeno potrebbe essere attribuito a due principali linee interpretative.


La prima ipotesi rimanda alla natura stessa della classe dirigente delle aziende italiane più iconiche del settore. I leader di queste realtà, spesso veri e propri pionieri imprenditoriali, eccellono nell’arte di promuovere e consolidare la propria marca sui mercati globali, rivelando un’acuta sensibilità per l’estetica, la qualità e l’innovazione. Tuttavia, è plausibile che tale inclinazione imprenditoriale non sia affiancata da un eguale predisposizione alla gestione di strutture organizzative complesse, tipiche dei gruppi multimarca e multisettoriali. La governance di tali conglomerati richiede competenze manageriali diverse e una visione strategica che sappia armonizzare l’autonomia creativa con le sinergie operative.


La seconda ragione riguarda la leadership e il potere economico, che costituiscono il cuore pulsante di ogni gruppo strutturato. Contrariamente a realtà associative come Altagamma, fondazione italiana che si distingue per il suo impegno nel promuovere valori e interessi condivisi, un gruppo del lusso opera secondo logiche più incisive e funzionali. Esso mira a ottimizzare risorse e processi, sfruttando sinergie che spaziano dalla ricerca e sviluppo agli approvvigionamenti, dalla produzione alla gestione del capitale umano, fino ai servizi legali, fiscali, post-vendita e istituzionali. Non meno rilevante è il concetto di "vantaggi parentali," vale a dire i benefici derivanti dal fatto che ogni brand appartenente a un gruppo può contare sul supporto e sulla forza di una holding madre di grande potenza economica e strategica.


In ultima analisi, l’appartenenza a un gruppo permette ai marchi di conseguire una crescita e una redditività non solo riconoscibili come proprie, ma amplificate dall’effetto sinergico della rete. In altre parole, l’efficienza e il valore generati dal sistema collettivo, superano di gran lunga ciò che le singole entità avrebbero potuto ottenere operando in modo autonomo. Questo modello, sebbene non ancora pienamente adottato dall’industria del lusso italiana, potrebbe rappresentare una via per massimizzare il potenziale economico e strategico delle sue straordinarie eccellenze.


L’ascesa di marchi cinesi e di altre economie emergenti, pone una nuova sfida sia per la Francia che per l’Italia, che dovranno ridefinire le loro strategie per competere in un contesto sempre più policentrico. Se la Francia continuerà a espandersi attraverso acquisizioni, potrebbe rischiare di perdere il contatto con la propria base creativa. Al contrario, l’Italia, con il suo approccio decentralizzato, potrebbe sfruttare questa occasione per riaffermare la propria leadership culturale e creativa, dimostrando che il lusso autentico non si misura solo in termini di capitale, ma anche e soprattutto di visione e autenticità.



A questo punto, è opportuno focalizzarsi su un tema centrale e di grande rilevanza: la sopravvivenza e il successo dell'azienda monomarca nell'universo del lusso. La risposta a questa questione è inequivocabile: un’impresa che si concentra su un unico brand può prosperare e affermarsi con successo. Questa scelta strategica, lungi dall’essere un limite, può rivelarsi una dimostrazione di coerenza e di una visione chiara. Esempi iconici come Hermès illustrano con brillantezza la capacità di eccellere e generare valore mantenendo il focus su un singolo marchio.


Nei grandi conglomerati multimarca, la gestione simultanea di più brand di punta pone sfide complesse. Il management deve operare scelte strategiche, stabilendo quali marchi meritino maggiori risorse. Inevitabilmente, i brand percepiti come meno prioritari, possono trovarsi in una posizione sfavorevole, con investimenti limitati e prospettive di sviluppo ridotte. Al contempo, i marchi dotati di grande potenziale ma temporaneamente in difficoltà, spesso subiscono un rallentamento nella crescita, poiché le risorse disponibili devono essere impiegate per compensare le perdite dei brand meno performanti.


In questo contesto, emerge chiaramente come i gruppi multimarca, pur essendo potenti e diversificati, non siano intrinsecamente più produttivi rispetto alle aziende monomarca. Hermès, il più emblematico esempio di successo monobrand, dimostra come la focalizzazione su un’unica identità possa tradursi in risultati straordinari. Al contempo, è innegabile che i gruppi multimarca possano rappresentare un’opportunità per i brand emergenti, fornendo loro le risorse necessarie per finanziare la crescita e accedere a competenze specializzate. Tuttavia, la speranza che i nuovi marchi possano un giorno contribuire in modo significativo alla crescita e alla redditività complessiva del gruppo, non sempre si realizza con la linearità auspicata.


Dunque, l’ingresso in un conglomerato del lusso comporta senza dubbio diversi vantaggi, ma anche una serie di significativi svantaggi che vanno a sommarsi a quelli appena espressi. Sebbene questo tema verrà approfondito in seguito, è utile fin da ora presentare una sintesi di tutte quelle strategie e pratiche messe in atto dai grandi gruppi in netto contrasto con i principi fondamentali che regolano il settore del lusso.


- Uniformare ogni aspetto dell’identità aziendale.

- Rivolgersi al middle market.

- Proporre prodotti più accessibili e ampliare la gamma di prodotti.

- Massimizzare i profitti.

- Promuovere in modo massiccio un brand adoperando celebrità.

- Suscitare scandalo e scalpore attraverso campagne pubblicitarie e sfilate provocatorie.

- Apertura di outlet per la commercializzazione di rimanenze a prezzi scontati.

- Vendita di prodotti nei duty-free degli aeroporti.

- Quotazione in borsa, la quale comporta la richiesta di una crescita costante dei profitti, spingendo i brand a ridurre la qualità dei materiali utilizzati o a delocalizzare la produzione in Paesi in via di sviluppo.

- Privilegiare i grandi volumi.


La questione cruciale, ancor più preoccupante delle discutibili pratiche adottate dai conglomerati, risiede nella diffusa e pervasiva percezione che la maggior parte dei marchi inglobati da tali colossi continui a essere annoverata tra le espressioni autentiche del lusso. Tale convinzione, condivisa persino da figure di spicco quali manager, professionisti e studiosi del settore, finisce per offuscare ulteriormente la capacità di discernere con chiarezza i confini tra quello che rappresenta il vero lusso e quello che, invece, ha irrimediabilmente smarrito tale essenza distintiva.


Le suddette dinamiche hanno indotto, per contro, numerosi stilisti e dirigenti dell’universo del lusso a inaugurare una nuova e significativa corrente all’interno del settore, una categoria che potremmo definire come la “tribù dei rifugiati”, termine coniato dalla giornalista e autrice americana Thomas. Questo gruppo comprende stilisti, profumieri e dirigenti disillusi dai compromessi e dall’avidità che sembrano aver contaminato profondamente il settore. Spinti dal desiderio di riconciliarsi con i principi che inizialmente li avevano attratti al mondo del lusso, essi hanno scelto di abbandonare i grandi gruppi per fondare attività indipendenti, dedicate a una visione autentica del lusso.


Epilogo dell'episodio


Abbiamo raggiunto l'epilogo di tale episodio, nel corso del quale si è indagato il significato di lusso sotto il profilo economico, distinguendolo dalla nozione di lusso come concetto assoluto, dal lusso inteso in chiave personale e dal lusso quale modello di business, quest'ultimo oggetto di un'analisi dettagliata nel prossimo episodio.

Come si è evidenziato, la concezione economica del lusso presenta, sotto certi aspetti, una distanza significativa rispetto alla visione del lusso espressa negli episodi precedenti. Essa, infatti, deve necessariamente – seppur in misura circoscritta – sottostare alle logiche dell'economia di scala, paradigma che si pone in apparente e radicale antitesi rispetto alla quintessenza stessa del lusso. Tuttavia, è proprio questa dualità a caratterizzare il settore: un comparto prospero, dominato principalmente dai grandi conglomerati, che progressivamente sembrano allontanarsi dall'autenticità del lusso a favore di strategie dettate dalla contingenza del breve termine.


Queste decisioni, orientate a soddisfare le aspettative degli investitori, privilegiano spesso la massimizzazione immediata dei profitti e l’adozione di pratiche quali la delocalizzazione della produzione in Paesi in via di sviluppo, a scapito di una visione lungimirante e coerente con i valori originari del lusso. Paradossalmente, il settore economico del lusso appare sempre più distante dall'essenza stessa del lusso, vincolato com’è alle dinamiche e agli imperativi dei grandi conglomerati.


In questo contesto, i monobrand indipendenti dai colossi multinazionali rappresentano una categoria che, sebbene incarni valori autentici, non può essere considerata rappresentativa del settore economico del lusso, salvo rare eccezioni (ad esempio, Hermes). Queste realtà, infatti, non rispondono alle logiche imposte dai mercati finanziari né possono competere su un piano di parità con i grandi gruppi, che dettano le regole del gioco su scala globale. Eppure, è proprio in queste piccole e medie imprese che potrebbe risiedere il futuro del lusso: un’evoluzione che, potrebbe segnare via via il declino dei grandi conglomerati.

Non è un segreto che i megabrand, quelli che seguono logiche non in linea con il mercato del lusso, da tempo abbiano perso attrattiva agli occhi dei consumatori tradizionali e che stiano progressivamente alienandosi anche le simpatie dei nuovi ricchi, lasciando intravedere un possibile cambio di paradigma nell'intero settore.


Riferimenti utili


Il podcast offre un percorso esclusivo e rigoroso alla scoperta del lusso, ma per chi desidera un accompagnamento più diretto e personalizzato, Valeria Torchio mette a disposizione la propria esperienza pluridecennale attraverso servizi formativi, strategici e operativi di eccellenza. Per approfondimenti, si consiglia di prendere visione della seguente pagina: I servizi di Valeria Torchio.


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